“Perché ci sono solo misure a favore delle madri e nulla per chi non ha figli/e?” Questa domanda è spesso rivolta in relazione alle politiche a favore delle mamme. Al di là del giudizio sulle misure, stupisce la mancanza di percezione di quanto, ancora oggi in Italia, sia penalizzante avere figli/e.

Anche se la questione demografica è ormai al centro dell’attenzione pubblica (come riportato dall’ Istat, nel 2023 si è registrato un record negativo di 379.000 nascite), per dare la corretta misura di quanto ci sia ancora da fare perché la maternità non sia più una corsa ad ostacoli per le donne, è importante riportare e analizzare i dati.

Sono stati recentemente pubblicati due lavori i cui dati sono inequivocabili: avere dei figli/e in Italia continua a comportare, per le donne, l’aumento di un divario di genere già di per sé esistente. 

Lo studio Uil “IL LAVORO DELLE DONNE GAP OCCUPAZIONALE, GAP RETRIBUTIVO, GAP PENSIONISTICO” illustra i dati salienti relativi al gap occupazionale, retributivo e pensionistico.

Il tasso di occupazione tra le donne a febbraio 2024 è pari al 52,8% contro il 70,9% degli uomini. Il gap retributivo nel settore privato è complessivamente del 30,2% con una forte incidenza dell’utilizzo del part time. Lo svolgimento del PART TIME, nel 2022, ha interessato oltre 5,6 milioni di dipendenti privati.

Di questi il 63,4% sono state donne.
Lo svantaggio delle donne che lavorano, dovuto al genere, è espresso chiaramente in questi numeri e questa condizione influisce anche sul futuro, con divari importanti anche in termini di prestazioni pensionistiche. Le donne percepiscono infatti il 36% in meno a livello pensionistico rispetto agli uomini.

Ma come si inquadra la maternità nell’ambito dei divari di genere lavorativi?
Il rapporto Save The Children “Le equilibriste della maternità 2024” fornisce una serie di dati ancora più specifici che indirizzano a quella che viene definita “motherhood penalty”. Un primo e fondamentale indicatore per dare una misura del fenomeno è il rapporto tra il tasso di occupazione delle donne di età compresa tra i 25 e i 49 anni con figli in età scolare e le donne nella stessa fascia d’età senza figli: nel 2021, questo rapporto è del 73%, il che significa che per ogni 100 donne senza figli occupate ce ne sono solo 73 con figli in età scolare che lavorano. “Eliminare le penalità legate ai figli/e sia per le nuove che per le madri esistenti aumenterebbe l’occupazione femminile di 14 punti percentuali già entro il 2030, chiudendo così l’85% del divario di genere attuale.” Per gli uomini, al contrario, il tasso di occupazione aumenta in presenza di uno o più figli/e. All’interno di questa analisi va considerato, inoltre, che lo svantaggio è inversamente proporzionale al grado di istruzione. Dai dati emerge, infatti, che avere figli rappresenta un passaggio particolarmente complesso per la partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto per le donne con un livello di istruzione inferiore.

I dati INAPP (Istituto Nazionale Analisi Politiche Pubbliche) dimostrano l’influenza del lavoro di cura sulle scelte occupazionali: le madri inattive che si prendono cura abitualmente dei figli sono il 46,6% dei casi, rispetto al 14,1% dei padri nelle stesse condizioni lavorative. Questo conferma il caregiving come una delle principali ragioni dell’inattività femminile.

Anche il fenomeno delle dimissioni volontarie post genitorialità va nella stessa direzione: a dimettersi sono principalmente le madri, al primo figlio, entro il suo primo anno di vita. Le problematiche legate alla cura rappresentano il 63,6% di tutte le motivazioni di convalida fornite dalle lavoratrici madri mentre per gli uomini, la motivazione dominante è di natura professionale.  

Il rapporto individua le possibili soluzioni in un quadro di politiche pubbliche e culturali su più fronti e direzioni, ma in rete tra loro. Tra le raccomandazioni e linee guida, il rapporto propone: 

  • una più equa distribuzione dei compiti di cura, includendo misure per il congedo di paternità e soluzioni per l’assistenza agli anziani;
  • un adeguato livello dei servizi per l’infanzia con una strategia ampia che agisca su più fronti: disponibilità di posti nei servizi educativi 0/6, accessibilità economica, consultori familiari, servizi sociali e strutture educative e ricreative territoriali;
  • maggiori sgravi fiscali a prescindere dalla condizione contrattuale e dal numero di figli, per agevolare l’accesso e il rientro dopo la maternità nel mercato del Iavoro;
  • recepire in tempi brevi la Direttiva UE 2023/970 sulla parità di retribuzione tra uomini e donne;
  • sostenere politiche e programmi territoriali (es. flessibilità oraria dei servizi per l’infanzia, armonizzazione degli orari dei servizi pubblici con gli orari di lavoro, servizi di natura amministrativa informatizzati, sostegno alla mobilità e al sistema dei trasporti locali) da attuare anche in collaborazione con il settore privato.

In conclusione, per “essere un paese per madri” è indispensabile agire attraverso direttive complementari su più ambiti, con l’obiettivo di non rendere penalizzante la scelta di diventare madri. La strada da percorrere è ancora lunga.  Il principale ostacolo resta quello culturale, non solo perché la figura materna è ancora il principale riferimento per la cura dei figli/e, ma anche quella paterna viene ancora ostacolata nel percorso di condivisione da barriere culturali e pregiudizi.

Elisa Innocenzi

👉 “le equilibriste”, la maternità in Italia nel 2024 | Save the Children

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