Nonostante la presenza delle donne nel mondo del lavoro da più di un secolo, il recente rapporto Ocse sull’istruzione 2024 ha evidenziato in Italia persistenti disuguaglianze salariali. Le donne laureate guadagnano in media la metà rispetto agli uomini laureati, esattamente il 58% in meno, contro il 17% degli altri paesi OCSE. Inoltre, le donne con un diploma di scuola secondaria di secondo grado guadagnano stipendi pari all’85% dei loro colleghi uomini.

I dati recentemente divulgati dall’Istat sull’occupazione femminile relativi al secondo trimestre 2024 indicano che il numero delle occupate tra i 15 e i 64 anni è in aumento, ma il tasso di occupazione rimane a quota 53,5%, significativamente inferiore rispetto a quello maschile del 71,1% e al di sotto del media UE per l’occupazione femminile, che supera il 65%.

In Italia esiste uno stretto legame tra bassa natalità e scarsa occupazione femminile, segno che le donne italiane si trovano ancora a scegliere tra carriera e famiglia. Le ragioni di questi fenomeni sono complesse e dipendono da molteplici fattori interconnessi. Tra questi, i più evidenti sono legati alla discriminazione di genere e alla cosiddetta motherhood e caregiver penalty, il fatto che, ancora oggi, le responsabilità familiari di assistenza gravano principalmente sulle donne. I paesi dove, a differenza dell’Italia, esiste una più significativa partecipazione dei padri alla vita familiare sono, infatti, anche quelli che negli ultimi dieci anni hanno mantenuto stabile il tasso di natalità e dove esiste una maggior occupazione femminile e un minor divario retributivo tra uomini e donne.

Attuare politiche in materia di equilibrio tra attività professionale e vita familiare che non sia solo per le donne ma che incoraggino anche gli uomini ad occuparsi della famiglia consentirebbe alle donne di dedicare più tempo al lavoro retribuito, colmando il divario occupazionale e retributivo di genere, a beneficio di tutta la società. Lo stesso vale per l’organizzazione aziendale, dove è doveroso trovare soluzioni che facilitino la conciliazione famiglia e lavoro e la condivisione degli incarichi di cura.

Nei nostri settori diverse pratiche positive contribuiscono a questo obiettivo, come la flessibilità oraria, lo smart working, la riduzione d’orario, la settimana corta e, non ultimo, l’aumento dei giorni di congedo retribuito ai lavoratori padri. In controtendenza, alcune aziende continuano a fare scelte organizzative che si traducono in una sempre maggior presenza in sede, legando dedizione e prospettiva di carriera al tempo trascorso in ufficio. Questo approccio arcaico, oltre che altamente penalizzante e indirettamente discriminatorio per le donne, sottovaluta i benefici che le stesse aziende avrebbero nell’adottare modelli organizzativi che agevolino lo smart working e la flessibilità oraria.

Numerosi studi hanno dimostrato, infatti, come il miglioramento dell’equilibrio vita/lavoro delle persone sia direttamente connesso al miglioramento del benessere organizzativo, della motivazione e della performance lavorativa, alla riduzione delle assenze per malattie, al senso di appartenenza all’azienda e quindi, in ultima analisi, al miglioramento della produttività aziendale.

Promuovere una cultura di condivisione degli incarichi di cura e rafforzare un ambiente di lavoro inclusivo e flessibile non è solo una questione di giustizia sociale, ma contribuisce anche allo sviluppo economico e al miglioramento delle condizioni generali di vita di tutte le persone. Questo impegno è assolutamente coerente con l’obiettivo assunto dall’Italia, dalle aziende pubbliche e private e dai sindacati per il raggiungimento dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda Onu entro il 2030, uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare i propri, armonizzando crescita economica, inclusione sociale e tutela dell’ambiente.

A cura si Angela Scalese e Simona Ortolani
 

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